sabato 31 ottobre 2015

Variazione - dal terzo canto dell'"Art Nouveau"; di Giancarlo Petrella

Questi occhi sembran, mirando, in eterno
a dar amore pronti: pare[1] dicano[2]
la ragione del ché a la loro amica[3]
cedere non è dato[4] a una vil sorte,[5]
de le crudeli,[6] il ghigno, [7] ore assorte[8]
a smembrar Giovinezza, rosea antica
Dea;[9] in questi occhi, risanasi l’Eterno.[10]

All’infinito rendono[11] una culla;[12]
come a la spene il proprio grembo, l’anima
pacata e dolce, l’usignolo (vani
pensieri) dona;[13] ah! giovinezza, triste
parola, fedeltà eppur in te[14] esiste;
del mare i resti e della terra i cani
infernal rendono immonda la culla.[15]


Ho costituito questa composizione conservando del sonetto la divisione in due parti e la presenza di quattordici versi. Ogni parte è rimata seguendo questo schema: ABBCCBA; nel primo e l’ultimo verso v’è una parola-rima, nel secondo una sdrucciola come rima mascherata con l’ultima parola del verso. I troncamenti che ho posto li ho desunti dall’uso settecentesco; mentre il sonetto, da un punto di vista squisitamente metrico, non si esprime come totale rivoluzione.
L'Autore

[1] Ritengo che questo pare si ricolleghi all’idea di distruzione che pervade il canto; ovvero pur data la distruzione delle cose, gli occhi riescono a dar amore, ciò sembrain eterno, dacché, interpretando i due punti quale inizio di una concessiva, essi spiegano come la fanciulla non cadrà nell’oblio (così ho interpretato vil sorte). Ndc
[2] Termine colloquiale, che in questo contesto acquista dei connotati prettamente lirici. Ndc
[3] Rima mascherata (dicano, amica) che lega i due versi in quanto non crea alcuna divisione ritmica, la piccola percezione della somiglianza fonetica li avvicina sensibilmente, senza interrompere la fluidità.
[4] Il darsi delle cose è ciò che definiamo fato.
[5] Smembramento quasi totale dell’ordine sintattico della frase. Ndc
[6] Durezza delle immagini, sicché durezza dei suoni (crudelighigno etc.).
[7] Nel testo vengono meticolosamente segnalate le dialefe. Ndc
[8] Il suono, inteso come andamento fonetico, fornisce i silenzi adeguati al pensiero: Questi occhi sembran, mirando, in eterno e alla recitazione: de le crudeli, il ghigno,  ore assorte ovvero la virgola non fornisce pause, ma le ricorda. Il ritmo non è dato da schemi sillabici prefissati, ma dall’alternanza di suoni (anche le allitterazioni formano alternanze); perciò riusciamo pur a distinguere versi in endecasillabi d’un buon versificatore, da quelli stomachevoli. La scelta delle parole non si riduce esclusivamente a questioni lessicali, benché tutta l’importanza del lessico è fuori discussione.
[9] La Giovinezza viene definita rosea antica DeaNdc
[10] L’apparenza diviene realtà: non solo gli occhi danno amore e spiegano l’immortalità della fanciulla, ma in essi risanasi l’eternoNdc
[11] Centralità dei verbi donare e rendereNdc
[12] Dall’infinità temporale a quella spaziale; lì la distruzione, qui la malinconia è l’elemento distintivo. Ndc
[13] Se nella prima parte l’ordine sintattico invertito “sfida” il tempo, ritengo che qui la rottura del periodo rappresenti uno “scontro” con lo spazio. Ndc
[14] La solennità del componimento vien data anche dall’impiego di termini aulici e inusuali, quali spene e fideltateNdc
[15] Figura indicante il divenire. Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau"
Proprietà letteraria riservata©

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

domenica 25 ottobre 2015

Canzone - dal terzo canto dell'"Art Nouveau"; di Giancarlo Petrella

La grazia che albergava
nelle favelle di Chirone quando
con Febo disputava,
con Febo innamorato, adona il luogo
ove sol vado. O danzante, te invoco;
rivedo, in questo boschetto dal viola
corteggiato, che alleggerisce il peso
delle meditazioni,
il dolce ruscel teso,
è l’Alfëo! Più con il Paradiso
l'Inferno si conviene,
che il Paradiso stesso
con tal ruscello lieve;
più soave dell'aquilegia, più candido
dell'acanto, non pone
il giardiniere attento
l'anemone in esilio verso ‘l vento,
come beltà lontano
da alcuna umana mano
questo ruscello. Irene,
Fata dello sbadiglio,
Ninfa della stanchezza,
volgi al tramonto il ciglio,
con braccia leggere ali,
ti avvolgi a modo d’un molce pensiero;
il corpetto tuo è nero
(pupille sigillate da tristezza);
i capelli simili ad arpa scendono,
declini la testa e un sogno sospira.
Mira come l’aurora
i capelli nervosa-[1]
mente rossi muove. In questo nebbioso
boschetto nel grembo aduni una molti-
tudine di pensieri;
lo sguardo pensieroso
cade come nel cielo
declina questo sbadiglio dal nome
tramonto; della morte
non dimentichi e ti avvolgi, di contro,
in una beltà pura.

Oggetti nella cuccia reca un gatto,[2]
li sente suoi, non un concetto astratto,
li discerne senza atto
o potenza dall’infinite cose,
si distingue da questi,
che son realmente oggetti,
fedelmente, e non altro:
non parole, non speranze, non stretti
timori al cuore. Discerne dai tetti
il gatto, il vivo dall’inanimato,
concentrando la sua attenzione quando
il non vivo si muove,
pur se lui lo mosse, non certo il fato.
Con questa sicurezza,
con tale naturalezza[3]
i tuoi piedi s'alternano: diverse
forme a guisa di fiori
che discernono il vento.
Non ti abbandoni Irene al futuro
o al passato; del reale
non ne fai un fiore, ma lo vedi: un sasso
dall’occhio cupo e spento.
Qual fiamma e cera, così è il tempo e l'anima:
dell'altra entrambe vivono,
e così per l'altra dissolverannosi.

È come se i capelli indicassero
la notte al sole e i denti nascondessero
il biancore dei monti;
li occhi, quali anaphalis intrecciati,
si intrecciano alle illusioni del glicine.
Deh, smorza! Smorza il sole:
è un carcere la vita
diurna; le mura inique
non sono che pensieri,
e il tempo le catene
che triste l'occhio rende.

Qual alato unicorno,
o ancor di più qual angelo,
una farfalla timida
sui tuoi capelli siede, la sera imita
quando le tombe s’aprono alla luce;
una violea rosa, pettine, il regno
dell'angelo attraversa
divenendone la nuova regina.
Soavemente alzi le spalle: natura
quando risorge non sostiene tanta
giovinezza ne le rose sepolte:
desiderio albeggia nella mia bocca
che si disseta di sogni. Elementi
e leggi inscindibili; così senza,
senza di te, ∨4 Irene, è
come se la natura non sorgesse.
Il primo violino[5] di questo canone
divino è uno sbadiglio;
la nebbia viola miro
e le membra si affievoliscon, spente,v a una rosea stanchezza.
Esausto di pura beltà, declinasi
il mio pensier a modo
di testolina cadente; e ricado
nel sogno inaspettato.[6]

[1]Tmesi. Ndc
[2]Incipit scherzoso. Ndc
[3]Da qui, il ritmo è meno calzante e il fraseggio più ampio fino alle sdrucciole che terminano la composizione.
[4]Anche se nel mezzo di due sillabe atone, per ampliare il fraseggio, con una pausa marcata, ho posto la dialefe. In Leopardi si trova «e qua e là saltando» (Il sabato del villaggio, 26); ma è D’Annunzio che fornisce gli esempi più particolari: «suoni dormendo e virtudi ignote» (Bocca d’Arno, 15).
[5]In un’orchestra, prima dell’esibizione, è il primo violinista a iniziare l’accordatura. Ndc
[6]È forse stato presente un momento di lucidità? Di razionalità intellettiva? Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

lunedì 12 ottobre 2015

Dedica - dal quinto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

Questi occhi sembran, mirando, nell’anima
porre l’agognata unità; unità
che a talento nella memoria giace:
volgi la tua bellezza nello specchio,
e beltà trovi, così ognuno volgesi
entro sé e osserva un’ombra di se stesso;
brama che essa sia, che non svanisca.

Similemente a quando sfogli un libro
un sogno ti sfiora, che non sarà mai,
svanisce quali l’emozioni intense;
può lacrimare un uomo in una farsa,
si strazia anche l’attore, ma rimane
pur sempre falso; questa moltitudine
nel proprio io di pensieri non dà un essere.

Persino le lacrime vere alcuna
sostanza non recano, ché mutevoli,
così un’anima su di un’altra adagiasi;
pur li occhi da me venerati – accendono
più ricordi che le cose vissute –
fermano l’oblio, come un canto, e recano
l’unità perduta, che l’uomo agogna.

Tu, che ti specchi nel bianco di queste
tombe, per la tua bellezza, appari Una:
la luce si divide, ma una luce
pur rimane così il tuo sguardo smembrasi
fra cose diverse da te, ma sempre
rimane a sé simile, imperturbabile:
ti reca il vero essere, la bellezza.


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

sabato 3 ottobre 2015

la Vampira dei Sogni - dal quarto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

Poseidon, scuotitor del mondo, ascolta
il lieve suon del peplo che ti cinge
come un’idea al mattino, come Sfinge
di sogni, come selva di ombre folta.

Vedo che sei stanca, pallida, bianche
linee mosse sul peplo, pii scalpelli
condusse amore; le tue membra stanche,
pallida, sangue non v’è: è nei capelli.

Oh occhi screziati, l’arpa su di un muro
si stende come nei sogni tuoi cadi;
fra le memorie un recar fuori oscuro:
spettri, fantasmi, d’intorno agli armadi.

Viola! vestita di viola, illusione,
non lasciar, non lasciarmi solo, questa
notte, senza memorie, un’abrasione
compiuta dall'obblïo; spettri in festa.


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©