mercoledì 30 dicembre 2015

Il Mantello - Ezra Pound

Di te conservi il tuo petalo di rosa
finché il roseo tempo terminerà;
credi che la morte brami baciarti?
Credi che la casa oscura
            ti trovi qualche amante
simile a me? che alle nuove rose mancherai?

Preferisco il mio mantello a quello della polvere
            sotto cui giace l’anno trascorso,
perché tu dovresti di più diffidare
            del tempo che non dei miei occhi.

traduzione di Giancarlo Petrella,
Proprietà letteraria riservata©

domenica 1 novembre 2015

L’ombra di Archia - dal terzo canto dell'"Art Nouveau"; di Giancarlo Petrella

Oh Cino da Pistòia, padre eletto,
tu ‘l sai del verso il metro, poiché regole
hai nel dolce suon, che nell’intelletto;
tale spontaneità rendesti di egloghe,
non conteggiar meccanico prescelto.[1]
Pur l’oblio a sé richiama qual idëa
degl’infernali fiumi un fosco suono,
come l’archetto rapido un tremore,
come sovviene l’oblio col ricordo.
Un’ombra appare, romano vestita,
pur non par quel Catone che persuasemi
ad adornare i canti col pudore,[2]
tessuti d’oro, con densi colori;
l’ombra è un poeta, perché al cuor doppiamente
astringe la lira; e un poco guardandomi,
sentendo l’alternarsi dei concetta,
spira queste parole quale soffio
flebile mattutino nel frastuono
gelido della notte obliata ai lumi.
« A che la diffusione dei miei versi?
Fra l’università diffusi, fissi
nell’intelletto dei dotti, che giova?
A che se il popol tutto, come ognuno
ben sa il proprio dolore, conoscesse
i versi miei? Frattanto soffia ‘l vento
e linee forma a la riviera e il mare
non se ne avvede. La colonna Aurelia,
pur fra le parti che mai nuovo sguardo
vedranno, ha perfezione; così come
gl’immani volti nei mostruosi templi
alcun viandante li coglie qual uno:
il reale non si vede se virtude
prescelte non vi sono nel mirare. »
« Saggezza rechi col parlar cortese,
chi sei tu? » « Non t'importi chi sia stato,[3]
cose non leggerai mie,[4] le ha la polvere;
l’orator,[5] che tu leggi con pio senno,
a me difese, e ciò basta a saper
ch’io sia; tornando al dire: molti poeti
che furono illustri uomini la polvere
li agghiaccia nella terra e negli archivi;
se i posteri che muta mi hanno in cura?
E si leggeranno forse negli ultimi
istanti i miei versi? Ne avrò qual gaudio;
leggere l’uom deve per eternarsi;
e se l’uom più non fosse e il suo linguaggio
lo apprendesse altra specie e fossi io eletto
nella corte dei pöeti qual unico
esempio che giova? Ne avrò qual gaudio?
Certo la vita cesserà del sole,
similemente la nostra; e la gloria
non di un secondo procrastinerà
il termine: i Romani un mondo vasto
ebber, pur molti popoli e diversi
non seppero dei Cesari e del Foro.
Allora un peso presemi e il terreno,
sospirando, ed il ciel mirai; più ruderi
che stelle vidi, ero presso quel colle
ove i fasti di Roma ben si mirano,
e volgendo lo sguardo al Poeta, dissi:
« Ora che siam in questa landa vedo
colonne desolate: non è data
al possibile questa solitudine.
Intorno sassi sparsi qual rimpianti;
un flebil raggio, pallido, le mura
ricorda e tenta d’essere, non può,
perché l’oscurità ha ivi sede. Buia
è questa vita, l’esistenza un frùscio
d’incertezze, non v’è nessun mistero,
né turbamenti, se non essa stessa. »
Mi interruppe, e ridendo a me cortese:
« nessun perché si scema nel pensiero,
l’uman riflettere si incristallìnea
nel vago essere. Ruderi di un mondo
che fu son le rovine; rovinose
quale pensier che tutto vuol avvolgere.
Il passato è un vedere certe cose,
che più non sono, spenta fiamma; oscuro
è il nascer del futuro; questi reale
non è, né può il presente, che vuol l’essere. »
Quand’ebbe degnamente terminato
il discorso, compresi il nulla, il frivolo
dell’ardore dell’essere, e qual suono
chiama un ricordo, apparve nuovamente
quel Catone che mai di onore è sazio,
con una clamide rossa vestito
nella sua potestà, un poco guardando,
mi indicò le rovine a noi d’intorno.
Erba morta, di muschio odor e fango
antico vedo d’intorno posarsi;
né margherita, né dolce melòde
allieta il vento; mentre fra le pietre
scende ‘l pensere a’ cadaveri muti,
per le pietre l’immago di Persèfone
sorge, votivi canti reclamando,
e ovunque spazia, libero, l’oblïo.

[1]Ossia che non segue regole metriche rigide. Ndc
[2]Catone è una delle quattro guide e rende i canti più pudici, v. il Canto II. Ndc
[3]Il verbo così coniugato da subito l’idea che chi parla è un defunto. Ndc
[4]Nulla ci è pervenuto del poeta Archia. Ndc
[5]Cicerone, che scrisse per l’appunto il Pro Archia poeta. Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

Composi i primi versi in omaggio a un grande poeta, grandissimo; eccelso nella spontaneità, limpido nei pensieri, attento al decoro. Per evocare il sogno del leggere i suoi versi, ho posto, nell’incipit della composizione, rime che si scemano, sicché l’ultima parola rimata contiene – idealmente – in sé le altre; essa non consiste più in una semplice rima, ma in un suo ricordo. Riguardo alla metrica, sigillo dicendo:
Ciò che leggete è forgiato dal classico
secondo il metro bacio di Melpomene.

L’Autore

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

sabato 31 ottobre 2015

Variazione - dal terzo canto dell'"Art Nouveau"; di Giancarlo Petrella

Questi occhi sembran, mirando, in eterno
a dar amore pronti: pare[1] dicano[2]
la ragione del ché a la loro amica[3]
cedere non è dato[4] a una vil sorte,[5]
de le crudeli,[6] il ghigno, [7] ore assorte[8]
a smembrar Giovinezza, rosea antica
Dea;[9] in questi occhi, risanasi l’Eterno.[10]

All’infinito rendono[11] una culla;[12]
come a la spene il proprio grembo, l’anima
pacata e dolce, l’usignolo (vani
pensieri) dona;[13] ah! giovinezza, triste
parola, fedeltà eppur in te[14] esiste;
del mare i resti e della terra i cani
infernal rendono immonda la culla.[15]


Ho costituito questa composizione conservando del sonetto la divisione in due parti e la presenza di quattordici versi. Ogni parte è rimata seguendo questo schema: ABBCCBA; nel primo e l’ultimo verso v’è una parola-rima, nel secondo una sdrucciola come rima mascherata con l’ultima parola del verso. I troncamenti che ho posto li ho desunti dall’uso settecentesco; mentre il sonetto, da un punto di vista squisitamente metrico, non si esprime come totale rivoluzione.
L'Autore

[1] Ritengo che questo pare si ricolleghi all’idea di distruzione che pervade il canto; ovvero pur data la distruzione delle cose, gli occhi riescono a dar amore, ciò sembrain eterno, dacché, interpretando i due punti quale inizio di una concessiva, essi spiegano come la fanciulla non cadrà nell’oblio (così ho interpretato vil sorte). Ndc
[2] Termine colloquiale, che in questo contesto acquista dei connotati prettamente lirici. Ndc
[3] Rima mascherata (dicano, amica) che lega i due versi in quanto non crea alcuna divisione ritmica, la piccola percezione della somiglianza fonetica li avvicina sensibilmente, senza interrompere la fluidità.
[4] Il darsi delle cose è ciò che definiamo fato.
[5] Smembramento quasi totale dell’ordine sintattico della frase. Ndc
[6] Durezza delle immagini, sicché durezza dei suoni (crudelighigno etc.).
[7] Nel testo vengono meticolosamente segnalate le dialefe. Ndc
[8] Il suono, inteso come andamento fonetico, fornisce i silenzi adeguati al pensiero: Questi occhi sembran, mirando, in eterno e alla recitazione: de le crudeli, il ghigno,  ore assorte ovvero la virgola non fornisce pause, ma le ricorda. Il ritmo non è dato da schemi sillabici prefissati, ma dall’alternanza di suoni (anche le allitterazioni formano alternanze); perciò riusciamo pur a distinguere versi in endecasillabi d’un buon versificatore, da quelli stomachevoli. La scelta delle parole non si riduce esclusivamente a questioni lessicali, benché tutta l’importanza del lessico è fuori discussione.
[9] La Giovinezza viene definita rosea antica DeaNdc
[10] L’apparenza diviene realtà: non solo gli occhi danno amore e spiegano l’immortalità della fanciulla, ma in essi risanasi l’eternoNdc
[11] Centralità dei verbi donare e rendereNdc
[12] Dall’infinità temporale a quella spaziale; lì la distruzione, qui la malinconia è l’elemento distintivo. Ndc
[13] Se nella prima parte l’ordine sintattico invertito “sfida” il tempo, ritengo che qui la rottura del periodo rappresenti uno “scontro” con lo spazio. Ndc
[14] La solennità del componimento vien data anche dall’impiego di termini aulici e inusuali, quali spene e fideltateNdc
[15] Figura indicante il divenire. Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau"
Proprietà letteraria riservata©

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

domenica 25 ottobre 2015

Canzone - dal terzo canto dell'"Art Nouveau"; di Giancarlo Petrella

La grazia che albergava
nelle favelle di Chirone quando
con Febo disputava,
con Febo innamorato, adona il luogo
ove sol vado. O danzante, te invoco;
rivedo, in questo boschetto dal viola
corteggiato, che alleggerisce il peso
delle meditazioni,
il dolce ruscel teso,
è l’Alfëo! Più con il Paradiso
l'Inferno si conviene,
che il Paradiso stesso
con tal ruscello lieve;
più soave dell'aquilegia, più candido
dell'acanto, non pone
il giardiniere attento
l'anemone in esilio verso ‘l vento,
come beltà lontano
da alcuna umana mano
questo ruscello. Irene,
Fata dello sbadiglio,
Ninfa della stanchezza,
volgi al tramonto il ciglio,
con braccia leggere ali,
ti avvolgi a modo d’un molce pensiero;
il corpetto tuo è nero
(pupille sigillate da tristezza);
i capelli simili ad arpa scendono,
declini la testa e un sogno sospira.
Mira come l’aurora
i capelli nervosa-[1]
mente rossi muove. In questo nebbioso
boschetto nel grembo aduni una molti-
tudine di pensieri;
lo sguardo pensieroso
cade come nel cielo
declina questo sbadiglio dal nome
tramonto; della morte
non dimentichi e ti avvolgi, di contro,
in una beltà pura.

Oggetti nella cuccia reca un gatto,[2]
li sente suoi, non un concetto astratto,
li discerne senza atto
o potenza dall’infinite cose,
si distingue da questi,
che son realmente oggetti,
fedelmente, e non altro:
non parole, non speranze, non stretti
timori al cuore. Discerne dai tetti
il gatto, il vivo dall’inanimato,
concentrando la sua attenzione quando
il non vivo si muove,
pur se lui lo mosse, non certo il fato.
Con questa sicurezza,
con tale naturalezza[3]
i tuoi piedi s'alternano: diverse
forme a guisa di fiori
che discernono il vento.
Non ti abbandoni Irene al futuro
o al passato; del reale
non ne fai un fiore, ma lo vedi: un sasso
dall’occhio cupo e spento.
Qual fiamma e cera, così è il tempo e l'anima:
dell'altra entrambe vivono,
e così per l'altra dissolverannosi.

È come se i capelli indicassero
la notte al sole e i denti nascondessero
il biancore dei monti;
li occhi, quali anaphalis intrecciati,
si intrecciano alle illusioni del glicine.
Deh, smorza! Smorza il sole:
è un carcere la vita
diurna; le mura inique
non sono che pensieri,
e il tempo le catene
che triste l'occhio rende.

Qual alato unicorno,
o ancor di più qual angelo,
una farfalla timida
sui tuoi capelli siede, la sera imita
quando le tombe s’aprono alla luce;
una violea rosa, pettine, il regno
dell'angelo attraversa
divenendone la nuova regina.
Soavemente alzi le spalle: natura
quando risorge non sostiene tanta
giovinezza ne le rose sepolte:
desiderio albeggia nella mia bocca
che si disseta di sogni. Elementi
e leggi inscindibili; così senza,
senza di te, ∨4 Irene, è
come se la natura non sorgesse.
Il primo violino[5] di questo canone
divino è uno sbadiglio;
la nebbia viola miro
e le membra si affievoliscon, spente,v a una rosea stanchezza.
Esausto di pura beltà, declinasi
il mio pensier a modo
di testolina cadente; e ricado
nel sogno inaspettato.[6]

[1]Tmesi. Ndc
[2]Incipit scherzoso. Ndc
[3]Da qui, il ritmo è meno calzante e il fraseggio più ampio fino alle sdrucciole che terminano la composizione.
[4]Anche se nel mezzo di due sillabe atone, per ampliare il fraseggio, con una pausa marcata, ho posto la dialefe. In Leopardi si trova «e qua e là saltando» (Il sabato del villaggio, 26); ma è D’Annunzio che fornisce gli esempi più particolari: «suoni dormendo e virtudi ignote» (Bocca d’Arno, 15).
[5]In un’orchestra, prima dell’esibizione, è il primo violinista a iniziare l’accordatura. Ndc
[6]È forse stato presente un momento di lucidità? Di razionalità intellettiva? Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

lunedì 12 ottobre 2015

Dedica - dal quinto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

Questi occhi sembran, mirando, nell’anima
porre l’agognata unità; unità
che a talento nella memoria giace:
volgi la tua bellezza nello specchio,
e beltà trovi, così ognuno volgesi
entro sé e osserva un’ombra di se stesso;
brama che essa sia, che non svanisca.

Similemente a quando sfogli un libro
un sogno ti sfiora, che non sarà mai,
svanisce quali l’emozioni intense;
può lacrimare un uomo in una farsa,
si strazia anche l’attore, ma rimane
pur sempre falso; questa moltitudine
nel proprio io di pensieri non dà un essere.

Persino le lacrime vere alcuna
sostanza non recano, ché mutevoli,
così un’anima su di un’altra adagiasi;
pur li occhi da me venerati – accendono
più ricordi che le cose vissute –
fermano l’oblio, come un canto, e recano
l’unità perduta, che l’uomo agogna.

Tu, che ti specchi nel bianco di queste
tombe, per la tua bellezza, appari Una:
la luce si divide, ma una luce
pur rimane così il tuo sguardo smembrasi
fra cose diverse da te, ma sempre
rimane a sé simile, imperturbabile:
ti reca il vero essere, la bellezza.


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

sabato 3 ottobre 2015

la Vampira dei Sogni - dal quarto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

Poseidon, scuotitor del mondo, ascolta
il lieve suon del peplo che ti cinge
come un’idea al mattino, come Sfinge
di sogni, come selva di ombre folta.

Vedo che sei stanca, pallida, bianche
linee mosse sul peplo, pii scalpelli
condusse amore; le tue membra stanche,
pallida, sangue non v’è: è nei capelli.

Oh occhi screziati, l’arpa su di un muro
si stende come nei sogni tuoi cadi;
fra le memorie un recar fuori oscuro:
spettri, fantasmi, d’intorno agli armadi.

Viola! vestita di viola, illusione,
non lasciar, non lasciarmi solo, questa
notte, senza memorie, un’abrasione
compiuta dall'obblïo; spettri in festa.


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

mercoledì 30 settembre 2015

Rifacimento de "La Ghirlandata" di Dante Gabriel Rossetti - dal quinto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

La sonatrice l’arpa suona e li occhi
verdi più del flessuoso peplo e molle,
ch’al prato, color flebile per li occhi
suoi,[1] s’unisce e diffondono le forme
della rosëa[2] pelle di Lei chiara
qual le rose fra le dita gioconde;
pur un incanto i crini rossi alquanto.

Un mare indistinto di avvenimenti,
un vortice di pensieri, pur nulla
al soffuso èssere dei colori;[3]
sprofonda il mio pensere più in codesti[4]
che nel finger come il linguaggio fermi
il mondo, sfigurando l’oblio: tenue
il dire argine al divenire pone.[5]

Del mondo e delle cose un pensatore
non se ne cura, nell’idee fuggendo;
con men cura del reale se ne avvede
la sonatrice nutrice dei sogni:
convesso il suon non al significato[6]
ma a evane[7] onde legato: mira il flebile
prato in cui il verde trascolora in canto.

Un mare indistinto di avvenimenti,
un vortice di punti senza forme,
questo è il mondo; ma pel sogno le cose
grazia e bellezza e cortesïa formano;
custodisce nel palmo fiori e l'uomo
si interna nei ricordi sparsi, cerca
dal sole protezione; lo delusero.

[1]Al paragone compiuto il verde della natura è meno accesso di quello dei suoi occhi.
[2]Contrasto fra il verde e il rosa che serve a delineare le forme di Lei. Ndc
[3]Più che la lucentezza in termini di quantità, è la loro qualità ad essere soffusa, non reale. Ndc
[4]Dai colori spesso si viene persuasi, più che dall'elucubrazioni intellettuali.
[5]L’idea che il linguaggio freni il divenire e/o l’oblio è un leitmotiv dell’Opera. Ndc
[6]Il primato del suono.
[7]Apocope: evane per evanescente. Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

martedì 29 settembre 2015

Rimembranze d’un quadro di Renoir - dal quinto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

un sogno mi immagina,
un immaginare mi rende sensazione
Il caso affida al bisso liberale[1]
le forme, come splendidi pensieri
a un io informe; il deserto si distende
nella monotonia, consegue un suono
se Piramidi incontra, il rosso denso
dei capelli, similmente, bagliore
dagli occhi prende e diviene parola.

La tua pupilla è la notte del tempo:
un essere onnisciente non si dà,
chi pinger può il perlato viso? Azzurro
velo e verde prato, di tre colori
l’un è maggiore sol per li occhi; un rosa
timido, qual petalo con l’idëa
del fiore, le gote e le labbra informa.

Scendono simili i capelli ad arpa;
i nostri baci gocce e foglie èmulano,
non bramar suoni, non parlo se ridi,
i fiori accennano un lieve no al vento,
l’api conducono una lira al sole;
nell’impaziente vuoto i crini vagano,
bellezza assecondando; impera un sogno.

Nessun perché, serena voce, solo
il desiderio; e gli Dëi non sono
nient'altro che i reggitor del linguaggio;[2]
viviamo in un regno d’ombre, ché il verbo
non sfiora 'l non detto, allor rimanendo
inesauribile fonte; e dell’Ïo,
tanto discusso, ne esitiamo l’essere.

[1]Libero dal gioco d’una forma predefinita.
[2]È oscura l’origine del linguaggio.


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

lunedì 28 settembre 2015

Meditando sulla "Persefore" di Rossetti - dal quinto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

Cantando andava, bella, la fanciulla
a cui un bel canto Pindaro commise
quando Proserpina irata lo prese
perché non un canto mai le diede; orme
cortesi vengono giustificate,
perché necessità altro non significa
che desio retro linëe celato.

Noi non siam cose che ovunque si spostano:
non uno spazio, un tempo, un’esistenza
diversi che da quelli d’or potrebbe
formarci; altri sarem stati se un altro
luogo, ora, vita abbrancati ci avesse;
avvolgon queste chiome questa pelle:
altro incarnato, altro crine, non puotesi.

Tutti sognan, l'istante tutti avvolge,
ma chi li unisce? Chi è l'union di sogni
di sensazioni, di vision, d’istanti,
dell'illusione, dell'eternità,
dell'immaginazione? Tanta è giòia,
che pur se mai nessuno scorto ha il sempre,
esso vien visto, per mezzo di lëi.

Degno il significare del silenzio
perché le cose dette, nulla valgono;
ma quando lor i suoni e i sensi crëano
e le immagini, eterno vagheggiare
di questi canti, allora, come ‘l peplo
verdognolo si posa su la pelle
di sogni bianca, così il dir sull’Essere.


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

giovedì 24 settembre 2015

Accordatura - primo canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

Il poema viene introdotto dall’episodio della Danzatrice; vengono presentati i temi portanti dell’opera: il desiderio, il linguaggio, l’immaginazione, l’istante; perciò il componimento è un esempio lampante dello stile del poeta, che alterna momenti di pura bellezza elegiaca a riflessioni filosofiche, spesso compenetrandoli a vicenda.

Tento ritrar ne’ versi miei la sacra

Danzatrice,
Ugo Foscolo
Linee,[1] danzatrice, curve a me balli:
petali[2] e[3] foglie e rami e fiori segni
nel vuoto impaziente; di presto avvalli
i pudori, e non del nudo te sdegni.[4]

Indecisa la veste e il peplo ritto
o mobile o assente al moto;[5] si scioglie
all’arboree carole[6] 'l vuoto, afflitto,
e s’altera per le femminee foglie.

Lo stesso piacer che reca ‘l suon ïo[7]
vien per cenni da’ costumi sensuali,
in cui non può l’amoroso desïo
fievolire dell’illusione l’ali.

Tal desïo, più che ‘l pensare, parte
noi dagli altri, similmente il linguaggio
individua le cose più dell’arte
sensibile,[8] ch’al mondo il dire è raggio;[9]

cede questo desiderio a l’immago,
che sempre s’accende e prende l’istante[10]
dal nulla e, non altro vedendo, pago
nel godere il presente e mai l’avante.

Solo con l’immaginazione mirasi
la bellezza, né i sensi, né il pensare
la nutrono; un piacer dagli occhi spira,
e informa le cose di per sé amare.

La tua nudità è pudore, il tuo velo
Selene di color, di fiori adorno
il crin; con di giovinezza lo zelo
promette il viso amor nel suo soggiorno.[11]

[1]Elemento primordiale. Ndc
[2]Il richiamo al regno vegetale, come apertura di un componimento o di una raccolta poetica, è un leitmotiv. Ndc
[3]La presenza della congiunzione e può essere intesa come indice di un continuo movimento. Ndc
[4]L’elemento erotico, presente in questo canto, verrà mediato dalla figura di Catone il Censore, una delle “guide” nel Poema, nel secondo canto. Ndc
[5]Il movimento è sempre un elemento che indica indecisione. Ndc
[6]Danze medievali. Ndc
[7]Il suono della parola io produce un affetto così intenso, un’evocazione così rapida, che molti sistemi filosofici sono nati semplicemente partendo da questo stato d’animo.
[8]La sensibilità. Ndc
[9]L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, §5.6: «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo».
[10]Il desiderio, l’immaginazione e l’istante formano una trinità all’interno del Poema. Ndc
[11]Musicalità aspra che piacque, per spezzare la facilità di canto.


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

nb. L’introduzione e le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

mercoledì 3 giugno 2015

Ultimo canto di un mondo morente - settimo canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

È forse d'Orfeo l'animo nutrito
di lagrime ? Di tenebre lo sguardo
l’infrenato desio terminò il tempo,
dal solitario cantore commosso,
nato dall'oscurità come 'l canto;[1]
che per sette corsi col pianto l'arpa
di pie rugiade infuse per ovunque.
Le guance d’Orfeo sono forse paghe
di lacrime ? L'infrenabile Tempo
pur lo mira e nel canto si consola;
pel pianto oblïa il verde l’erba alquanto,
l’etra apprende il sangue e accompagna ‘l canto
e li occhi tristi sostiene imitando,
così i tempi sfiorando qual fior unico.
Narrasi che le foreste al perpetuo
metro del solitario vagar tacite
piangan; perpetuamente rintronando
tra mirti e querce e salici le lacrime
a consolar i mortali che pongono
in chi amano la fonte di speranza,
la ragione d’eterna giovinezza.[2]
Gli animali attenti, non più son prede,
cacciatori, ma in un coro di sguardi
odono, il tutto obliando;[3] il venerato
uffizio al silenzio la morte cede,[4]
ché non di mirar Orfeo ha l’ardore,
ben sente che il canto la strazierebbe,
brama del suolo non s’inebri il pianto.
Così Orfeo è immortale: tale 'l dolore
che ne ‘mpedisce la Morte, la bella
Euridice non condurrà alle danze,
bramando per sé un’adamantina urna;
gli infernei cani, alla stessa ragione
lontani,[5] s'avvian a render immondo
principio ogni forma, eppur di lui piangono.[6]
Libero è colui che la morte tende
a beffeggiare;[7] ed Orfeo mesce ‘l canto
con l'eterno, qual libertà mostrando
serba de la sua cetra un solo spasimo;
eppur a lui siedesi accanto il Nulla,
ma lo addestra, lo governa, lo impèra
perché vera ne conosce ‘l valore.
La Luna or fulge per il solitario
cantore e quando una luce soffusa
emana 'l canto di riudire brama;
ne’ sentieri silenti dei vaganti
augelli stellari vano il disperso
andar; e il grido loro al canto tacito,
zinzilulare[8] de le vaghe stelle.

« In guisa di delfin le trombe squillino
e de' cigni i dardi dei canti gridino
che, in corteo fauni, giungesti Euridice;
ridenti margherite, di lontano
olmarie appassite[9] co’ vagolanti
spine; e de’ papaveri[10] l’orizzonte
in morte ‘l funereo coro traduce.
Io questa ninfa bramo perpetuare;[11]
ceruleo giacinto pensoso e glicine
violureo sterminato canta e ride
odori; e quando mirerai a ghirlande
di astri la diversa prole dispersa,
memorati dei fiori; speme donagli
e giovinezza, il Sole fuggirà.
Sole solitario, nell’ombra nato;[12]
e quando l'ultimo dorato canto
concederai da li occhi consumati,
dolce compagna la morte per attimo;
sfiancato e lento, senza speme e vecchio,
non è al chiaror de la disperazione
forse più lume la dimenticanza ?[13]
Ma adriade creatura, il qual nome sciogliesi
fra le 'nnevate nevi de’ tuoi denti,
pria di saziarmi in eterno il perire
non ti prema il destino; trascorrendo
vecchiezza tra le pallide tue braccia,
fedel rimanendo a la veste candida,
e si sazierà 'l mio labbro e la guancia.
Su la tua beltate arenasi un cigno,
mira, è pallido men delle tue forme;
non una funerea valle ha tante urne
quante viole 'l suolo ove il sacro piè
tuo volava; ronzano a te dintorno
gli Dei, ben sentono che un sol tuo sguardo
sul lor infinito tedio sentenzia.
Quando il Sole lacrima, mai vedrà
le tenebre, e al punto più alto dell’etra
di giungere non si consola, miralo;
il venerato sciame degli Dëi
il mistero in te ben sente dell'essere;
nei tuoi lumi si siede il cielo, il tutto
da altro punto,[14] dovuto sdegno, mira.
E quando nel cimitero de li astri
sarai,[15] dove da sé l'etra si tempra,
madre dell'ombra, ancella a’ sogni, volgiti;
osserva l'errante negletta terra,
dal suo usato pianto solleva il Sole,
il solitario conforta e concedi
un dolce sogno a le placate stelle. »

In un col Sole soleva cantare,
or neppur il mal sonno lo distrae;[16]
col pianto la realtà tutta sfamando;
la morte più lontana della giòia;
pur se immortale, l'arte non ha appreso
del sentenziare addio; e nell'orror memora;
muore in eterno chi sfiora le stelle.
Più triste in ogni tramonto il solare
diviene; tempra greve cecità
il dolore de la sua solitudine;
in una notte, per malinconïa,
luci diffuse la Luna per tenera
compagnia; brama 'l solitario Sole
d'esser una di quelle fioche stelle.
Più addolorato in ogni istante 'l Tempo
diviene; ben conosce il suo destino,
muto sarà e tacito quando l'ultima
indivisibil parte[17] perirà;
così quando un uomo la volontà
ha consumato, lì giunge 'l declino;
per placarlo lo mireran le stelle.
Più disperato in ogni tempo Amore
diviene; chi dolci detti a l’oreglio
giovine[18] può soffiare? a sé rimane
un'ombra di resti d'una metëora;
temprano le lacrime la sua essenza,
l'arcana origine per cui ne li occhi
dei mortali di più ardono le stelle.
Nel tramonto il Sole tardo diffonde
le ultime lacrime a la triste gleba
pregna del pianto; giace ne li antichi
occhi la disperazione del mondo,
armonia all'eterea sanguigna veste;[19]
negli occulti sentieri s'appropinquano
a percuotere il tempo le pie stelle.
Sordo è 'l grido de la crudele morte
e il romore de la vittrice sorte
se da deserte terre arcane il carme
asperge sovra l'eterna memoria;
nasce dalla Notte 'l canto e da sé
splende, come ogni mia lagrima, invidia
de li Dei, luce maggior delle stelle.
Padre mio, Orfeo, lacrima nella storia,
disperazione che 'l tempo consola,
de le gravi angosce mortali gloria
eterna e dei canti vari otterräi,
fin quando ‘l Sole, desiando la Luna,
nel tentare di celare le lacrime
che lei diffonde, spegnerà le stelle.


[1]Anche l’atto della creazione poetica proviene dal nulla, dall’oscurità.
[3]Per colui che ama, l’amata coincide con la fonte di ogni sperare e di una giovinezza perpetua.
[4]Medesimo oblio che dilegua la sofferenza.
[5]Dante, Inf., V, v. 18: «Lasciando l'atto di cotanto uffizio»: la morte e il giudice infernale, chi per terrore del soffrire, chi per tracotanza d’orgoglio, terminano - momentaneamente - il loro operato.
[6]A causa del dolore la distruzione, come la morte, è ben lontana.
[7]L’oblio è ben lontano da Orfeo, eppur di lui piange, ma non termina il suo arcano ufficio.
[8]Dacché la libertà è l’oblio della morte.
[9]Zinziāre, zinzilāre, zinzitāre, zinzilulāre; detto del tordo, soprattutto della rodine.
[10]Piante medicinali, pur non v’è cura al dolore.
[11]L’oblio.
[12]S. Mallarmé, L’Après-midi d’un faune, v. 1: «Ces nymphes, je les veux perpétuer».
[13]Pur il Sole, essere solitario, è nato dall’ombra.
[14]Son funeste queste parole cantate da Orfeo, ma subito tenta di ritornare alla sua adriade creatura.
[15]Dall’alto dei suoi occhi.
[16]Invece Euridice è ben negl’inferi; cfr. il Carme precedente (Et in Arcadia ego).
[17]Ché non dorme mai, come Maldoror: materia successiva dei miei canti.
[18]L'atomo.
[19]Canto VII: l’amore è «la ragione di eterna giovinezza». Ndc
[20]Canto VII: «l’etra apprende il sangue». Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

Questo Carme consiste in una variazione sull’etimologia di Ορϕεύς: ορφνη (tenebra), ὀρφανός (che vive solo).

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

martedì 2 giugno 2015

Sonetto votivo - dal terzo canto dell'"Art Nouveau"; di Giancarlo Petrella

Ho costituito questa composizione conservando del sonetto la divisione in due parti e la presenza di quattordici versi. Ogni parte è rimata seguendo questo schema: ABBCCBA; nel primo e l’ultimo verso v’è una parola-rima, nel secondo una sdrucciola come rima mascherata con l’ultima parola del verso. I troncamenti che ho posto li ho desunti dall’uso settecentesco.
L'Autore
Entrano in scena l’oblio, il divenire: l’elemento distruttivo.
Il tutto parrebbe provenire da uno sguardo colmo d’amore e di eternità; approdando nella giovinezza, richiamata e definita come triste parola: è la consapevolezza che il divenire distruggerà ogni cosa.

Questi occhi sembran, mirando, in eterno
a dar amore pronti: pare[1] dicano
la ragione del ché a la loro amica[2]
cedere non è dato[3] a una vil sorte,[4]
de le crudeli,[5] il ghigno, óre assorte
a smembrar Giovinezza, rosea antica
Dea;[6] in questi occhi, risanasi l’Eterno.[7]

All’infinito rendono una culla;[8]
come a la spene il proprio grembo, l’anima
pacata e dolce, l’usignolo (vani
pensieri) dona;[9] ah! giovinezza, triste
parola, fedeltà eppur in te esiste;
del mare i resti e della terra i cani
infernal rendono immonda la culla.[10]

[1]Ritengo che questo pare si ricolleghi all’idea di distruzione che pervade il canto; ovvero pur data la distruzione delle cose, gli occhi riescono a dar amore, ciò sembra, in eterno, dacché, interpretando i due punti quale inizio di una concessiva, essi spiegano come la fanciulla non cadrà nell’oblio (così ho interpretato vil sorte). Ndc
[2]Rima mascherata (dicano, amica) che lega i due versi in quanto non crea alcuna divisione ritmica, la piccola percezione della somiglianza fonetica li avvicina sensibilmente, senza interrompere la fluidità.
[3]Il darsi delle cose è ciò che definiamo fato.
[4]Smembramento quasi totale dell’ordine sintattico della frase. Ndc
[5]Durezza delle immagini, sicché durezza dei suoni (crudeli, ghigno etc.).
[6]La giovinezza viene definitiva rosea antica DeaNdc
[7]L’apparenza diviene realtà: non solo gli occhi danno amore e spiegano l’immortalità della fanciulla, ma in essi risanasi l’eterno. Ndc
[8]Dall’infinità temporale a quella spaziale; lì la distruzione, qui la malinconia è l’elemento distintivo. Ndc [9]Se nella prima parte l’ordine sintattico invertito “sfida” il tempo, ritengo che qui la rottura del periodo rappresenti uno “scontro” con lo spazio. Ndc
[10]Figura indicante il divenire. Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

nb. L'introduzione e le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

Il Rosa e il Rosso - dal quarto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

In nessun luogo germogliano tanti fiori come in un cimitero.
Marcel Proust
ad Ashlee
Non esistono pensieri profondi
ma è lo sguardo che a noi li rende tali;
e con un diverso linguaggio[1] fondi
l'impensabile e la ragione assali.[2]

Schioda la lira onirica[3] ed effondi
ciò che la mente non cura d’apprendere,[4]
e non confidare che mondi e mondi
si susseguiranno al canto presente.

« Noi non siamo le chiocce di conchiglie
che sempre restano avvinte;[5] una forza[6]
ci slega come fra rosee caviglie
e labbra vermiglie che le rafforza.[7]

Pur le nostre tombe, ànima eterna,[8]
resteranno abbrancate oltre 'l dettato
di questo globo;[9] odorerà, discerna
bene, ivi giovinezza,[10] o volto beato. »

[1]Con una nuova poetica. Ndc
[2]Tema ricorrente nell’opera. Ndc
[3]Pindaro, Olimpiche, trad.it. L. Borghi, I, v. 23: «Ma togli, esperta man, dalla parete/Il dorico strumento».
[4]La mente si cura di un mondo di ragioni, in contrasto con le illusioni decantate nell’opera. Ndc
[5]Si parla di un piano irreale, “illusorio”, dato che nel reale il legame fra i gusci delle conchiglie è molto fragile. Ndc
[6]Il tempo. Ndc
[7]Come nel primo canto, è qui presente un velato erotismo: le labbra dell’amante, vermiglie, baciano delle rosee caviglie, si ha così una tonalità diversa dell’incarnato umano. Da qui il titolo del canto; le caviglie sono come "rafforzate". Ndc
[8]Alle leggi del mondo. Ndc
[9]Per i fiori che lì nasceranno, anche se non se ne fa menzione; per il ricordo del loro amore, sempre si odorerà lì giovinezza. Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©

nb. Le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

Illusioni di un Tramonto - dal quinto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella

Si parte da un gesto, da un’azione compiuta da delle dita. Vengono evocate quattro arti, in successione la musica, la poesia, la scultura e la pittura.
Numerologia: ogni composizione della sezione quadri presenta quattro strofe, ognuna composta da sette versi.
Veronica Veronese guidò questi versi:
omaggio a Dante Gabriel Rossetti;
i colori costudiscono questo canto
l'Autore
Elena sollecita silenziosa[1]
a un violino le virginee[2] dormienti[3]
trecce,[4] incuriosita dall’armoniosa
pace;[5] curiosi[6] scivolano i lenti
rosei delfini[7] verso l’inascosa
grotta,[8] quasi armoniosa a' crini rossi;[9]
discendenti come l’appropinquarsi
in un tramonto del solare sonno.[10]

Mesci le parole su nivee pagine;[11]
glorificati che li occhi screziati[12]
volgonsi su di esse;[13] fine come aghi
le dita scivolano sui silenzi
irrispettati,[14] d’un riso presagi;
non ingannarla mai, l'Imperatrice
dell'illusione,[15] poiché santità
di venerazione consacri il verbo.[16]

Nuvole notturne simili a beate
sovracciglia giungono sovra[17] un triste
immobile fanciullo,[18] da’ silenzi
scolpito,[19] pensieroso putto;[20] tacita
ella dal veron[21] lo mira,[22] marmorea
la sua pelle[23] come inviolate pagine
scritte sul volto del Nulla;[24] susseguono
le epoche, e una sola certezza giace.

Pur se pinger può uno sfocato affresco
un sogno, mai il vivo bisso, deciso,
liberale,[25] emular li occhi screziati;[26]
l’occhio che ver lei si muove avventato:[27]
mille colori dolcemente, ciglio
del sogno,[28] lo feriscono;[29] si chiude
discendente come l’appropinquarsi
del sonno solare lo sguardo tacito.[30]

[1]Quasi furtivamente, in tutto il canto si assiste al contrasto fra il silenzio e la musica, fra la gestualità e l’immobilità. Ndc
[2]Intatte, ancora non sfiorate. Ndc
[3]Le inarcature impediscono una facilità di canto, una monotonia di corde.
[4]Le corde del violino che ancora non suonano. Ndc
[5]Prima che Elena sfiorasse le corde del violino, le virginee dormienti trecce, vi era il silenzio, l’armoniosa pace. Ndc
[6]Curiosi come lei. Ndc
[7]Le rosee dita. Ndc
[8]I fori della cassa acustica del violino. Ndc
[9]Quasi dello stesso colore. Ndc
[10]I capelli scendono come il calare della luce del sole; entrambi gli eventi sono caratterizzati dal colore rosso. Ndc
[11]Esortazione rivolta al poeta; si può constatare che nel canto le pagine e la scrittura rimandano al bianco, questo accade o per sottolineare il contrasto fra il bianco e il nero (la carta e l’inchiostro) o in quanto la carta, in assenza della scrittura, è bianca e rimanda all’idea di purezza, in assenza di alcuna traccia. Ndc
[12]Il colore degli occhi della donna amata non è ben definito. Ndc
[13]Elena, nella scena, legge quanto è scritto, cioè questi versi. Ndc
[14]Il silenzio è sempre ben presente e, nel momento in cui il violino viene suonato, il silenzio non viene rispettato; le dita scivolano, come se, con dolcezza, fossero costrette a farlo. Ndc
[15]L’inganno non è l’illusione; la fantasia non è immaginazione.
[16]Per mezzo del canto. Ndc
[17]Sovra, non sopra.
[18]È sera. Ndc
[19]Viene ripreso il tema del silenzio. Ndc
[20]Probabilmente un cupido, simbolo dell’amore per eccellenza. Ndc
[21]Arcaismo, che riesce tuttavia a non appesantire il verso. Ndc
[22]In tutta l’opera è presente un gioco di sguardi. Ndc
[23]Bianchissime, come il marmo. Ndc
[24]Talmente bianche, che sopra non v’è scritto nulla: inviolate. Ndc
[25]Foscolo, Le Grazie, ed. G. Chiarini, vv. 62-63: «E selve ampie d'ulivi, e liberali/I colli di Lieo: rosea salute».
[26]Un affresco può dipingere persino un sogno (il pur sottolinea la difficoltà di ciò), ma non la viva veste di lei, tanto elogiata, con un colore così acceso, può emulare i suoi occhi; ovvero, per quanto la veste abbia un colore magnifico, non è nulla al confronto dei suoi occhi. Ndc
[27]Sono occhi pericolosi. Ndc
[28]Nei sogni, i colori non sono mai ben delineati. Ndc
[29]Gli occhi non riescono a sopportare tale “fatica”. Ndc
[30]Si riprende il tema del tramonto; gli occhi si sono così tanto affaticati da tale bellezza che, come in un sogno, si riposano e si chiudono, come termina il giorno durante un tramonto: questi due ultimi versi riprendono totalmente le tematiche del canto. Ndc


di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©


nb. L'introduzione e le note segnalate con la dicitura Ndc sono a cura di Nicoletta Pia Rinaldi - Proprietà letteraria riservata©

Analisi metrica di Mario Famularo:
Per quanto riguarda l’analisi metrica del componimento Illusioni di un Tramonto di Giancarlo Petrella, partiamo dalla prima strofa: 1° 5° 10°
3° 7° 10°
1° 5° 10°
1° 4° 6° 10°
1° 4° 6° 10°
1° 3° 6° 8° 10°
3° 5° 10°
2° 4° 6° 8° 10°
L'endecasillabo canonico l’Autore lo mantiene su otto versi quattro volte; negli altri compie delle progressioni accentuative: nel penultimo verso si sposta prima l'accento dalla 6° sillaba alla 5° mantenendo fisso quello della 3° — poi nell'ultimo alterna dalle 3° e 5° alle 2°, 4° e 6° il che crea un interessante ritmo ondulatorio. Se si nota il passaggio dal terzo al quarto verso si constata l’alternarsi dell'accento di 5° a quelli di 4° e 6°, ciò crea una progressione che dà un ritmo ondulatorio, come quello dell'esametro latino, ma si può benissimo andare oltre, e considerarlo come una visione più moderna della metrica. Il discorso che l’Autore sostiene nella Prefazione riguardante i quaternari può essere così svolto: il verso 3° 7° 10° possiamo leggerlo come "a un violì 3° no || le virgì 3° ne || e dormie 3° nti" tre quaternari di fila, o se si preferisce, un trimetro di tre peoni terzi; se poniamo a leggerli con i piedi è tutto legittimo e inoltre, il fatto che l’Autore alterni endecasillabi canonici ad endecasillabi non canonici, crea modulazioni. Va precisato che non si tratta di un'operazione inconsapevole, come potrebbe essere stato per i duecenteschi e i trecenteschi (questa è la differenza essenziale da un punto di vista metrico con loro): l’Autore conosce il canone e se ne discosta consapevolmente e parzialmente.
Analizziamo gli accenti della seconda strofa:
1° 5° 8° 10°
4° 7° 10°
1° 5° 7° 10°
2° 4° 8° 10°
4° 7° 10°
3° 6° 10°
4° 7° 10°
5° 8° 10°
quanto detto è confermato; ovvero sono evidenti le alternanze accentuative, le progressioni (vedasi come si modulano le posizioni, ad esempio: 5-4-5-4-4-3-4-5, o 8-7-7-8-7-6-7-8).
Quindi non si può concepire il tutto come “operazione strampalata”, pericolo che l’Autore ha evocato, ma come un modo per impiegare l'endecasillabo canonico con particolare modulazioni del ritmo, come avviene per analogia nell'esametro latino.

Proprietà letteraria riservata©