Il tempo è come le gondole
per le vie della città
che il sol nome è poesia; ecco
le ninfe che sorgon dall’acqua
e vedo un drago, principe degli elementi,
che soffia. La natura del pensiero specchia le onde.
Le gondole fluttuano sulle idee
e chi si inabissò pel fondo
trovò il tempo: da interminabili
distanze il passato è un presente.
In un luogo sperduto uomini videro
che il suono delle parole
produceva altro che soltanto il significato:
nacque la musica. L’aura veneziana
il riflesso delle acque sfiora
come la fanciulla che in un palazzo roseo
pizzica un violino addormentato.
Su mille pagine del cielo
radunansi parole nuove. Strato
su strato occupa il passato,
sprofondasi nella neve a Kefu
qual epoche. Il biancore
su’ palazzi veneziani, accolti dall’azzurro. Di sotto,
antiche fondamenta, limbo dell’inferno:
sorreggono un mondo incantato
e ne minacciano, tuttavia, la vita.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
giovedì 20 luglio 2017
lunedì 17 luglio 2017
Ode alla veste - dal quarto canto del "Cortese Memorie di un Sogno" di Giancarlo Petrella
Ordito d'amore, leggiadro deserto,
cremisi stivali accesi viventi
che ti sfiorano,
fortunata,
eccelsa Veste, dorata finissima
come le sue sovracciglia nere, concedimi
del sacro segreto l'emanazione; innanzi
ai suoi occhi come un infante ‘l sole piange:
dopo la morte degli Dei
Lei sola vive.
Beffeggio al declino; libera, mira
i liberi petali e in una morte de la natura
fragili per un poter sotteraneo, dissonanti
a Dei, che questi necessari li rese la ragione,
non difetta la lor possanza;
tuttavia invoca, come il sogno
un ricordo, il pensiero un mondo,
il sonno un tempo,
la necessità de la sua bellezza
la Dea libertà.
I pensieri, gelidi cadaveri,
non han valore, è lo sguardo
a donargli l’aurora; e quando
declina l'arditezza vana
di conchiudere il vero, altro
più elevato, una dorata veste,
mostrasi al tramonto del pensiero;
ben conosci e senti di essere oltre ‘l mondo,
compiacente d'esser l'eletta al creato tutto.
Dorata Veste, da lei inscindibile
come 'l sole e lo splendere,
come Narciso e la fonte,
simboleggi, col tuo velare
e svelare, l'arditezza dell'alta fantasia;
immaginazione che copre,
come un velo splendido tessuto
prima dei tempi, la verità ultima,
il cui sangue è 'l sogno,
ed il suo nome: Bellezza.
Sacra Veste, che la sostieni, dal globo
allontanala; concedi che conosca
io per quale ragione le ere cadano,
e cadano i pensieri loro l'un all'altro
fra l'odio come forze primordiali,
cadano i nostri nomi, ma la bellezza,
l'unico pensiero prettamente abissale,
rimanga accerchiato fra labbra
dal sangue sigillato, imperituro,
nel suo sorriso.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
cremisi stivali accesi viventi
che ti sfiorano,
fortunata,
eccelsa Veste, dorata finissima
come le sue sovracciglia nere, concedimi
del sacro segreto l'emanazione; innanzi
ai suoi occhi come un infante ‘l sole piange:
dopo la morte degli Dei
Lei sola vive.
Beffeggio al declino; libera, mira
i liberi petali e in una morte de la natura
fragili per un poter sotteraneo, dissonanti
a Dei, che questi necessari li rese la ragione,
non difetta la lor possanza;
tuttavia invoca, come il sogno
un ricordo, il pensiero un mondo,
il sonno un tempo,
la necessità de la sua bellezza
la Dea libertà.
I pensieri, gelidi cadaveri,
non han valore, è lo sguardo
a donargli l’aurora; e quando
declina l'arditezza vana
di conchiudere il vero, altro
più elevato, una dorata veste,
mostrasi al tramonto del pensiero;
ben conosci e senti di essere oltre ‘l mondo,
compiacente d'esser l'eletta al creato tutto.
Dorata Veste, da lei inscindibile
come 'l sole e lo splendere,
come Narciso e la fonte,
simboleggi, col tuo velare
e svelare, l'arditezza dell'alta fantasia;
immaginazione che copre,
come un velo splendido tessuto
prima dei tempi, la verità ultima,
il cui sangue è 'l sogno,
ed il suo nome: Bellezza.
Sacra Veste, che la sostieni, dal globo
allontanala; concedi che conosca
io per quale ragione le ere cadano,
e cadano i pensieri loro l'un all'altro
fra l'odio come forze primordiali,
cadano i nostri nomi, ma la bellezza,
l'unico pensiero prettamente abissale,
rimanga accerchiato fra labbra
dal sangue sigillato, imperituro,
nel suo sorriso.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
venerdì 14 luglio 2017
Père-Lachaise - dal terzo canto del "Cortese Memorie di un Sogno" di Giancarlo Petrella
Nella notte eterna del cimitero di Père-Lachaise passeggio; dei sampietrini senza nome ho compassione. Quando il rancore muove a vita i fantasmi, da sotto i caldi avelli sento l’inutil peso che l’uomo diede al senso, l’imbellettare e ‘l potenziare una semplice categoria del pensare; un semplice concetto distillato fin le viscere, nel delirio dell’uman cosmo antropomorfizzare. Di fronte alla sofferenza non ne chiedo il perché; nella notte eterna del cimitero di Père-Lachaise passeggio, dei sampietrini senza nome ho compassione.
“Vedere un cimitero è indice d’un attaccamento al passato.” La mancanza d’un senso non traduce un non-senso; chi è cieco, l’oscurità non apprende. In questa funerea valle ogni tomba è un’immagine sbiadita dell’Eterno; ogni tomba custodisce come una giovine vergine il proprio candore, la leggiadria dell’acanto di fronte agli eccitati branchi di cinghiali e delle carogne che intorno divoran tutto – anche se stesse, soprattutto se stesse. I tordi scagliati nel cielo tramontano in un col sole, e la notte dona il cadavere di un colombo consumato da’ corvi: gli uccelli, come li uomini, non giurarono fratellanza. Come un vampiro, dinnanzi una soglia, aspetta l’invito, così, con la medesima solennità, salgo sul gradino che mi conduce più prossimo al regno dei morti; saluto i sentieri degli uomini co’ i loro sampietrini anonimi (lascio l’umanità appesa al delirio), ed entro nelle gemme della terra, negl’inferi bui; è questa un’altra via per la valle sanza alcun volo d’augello, ove dormono gli spirti che sorvegliano i metalli.
Una cripta è aperta. Il sepolto, che fu moralista, che per affetto scrisse quelle cose, trova la propria lapide qui: un ragazzo che seminava gioia. Gli angeli scolpiti osservano e par di vedere, dietro quel riso diabolico, un rancore; sepolto è qui un amore mai giunto alla compiutezza d’un bacio.
Non v’è nell’esistente nulla di più alto d’una promessa; tutto l’altro cadrà, come le piume dall’orgoglio dell’aquila; come dalle lapidi le scritte. La fedeltà non si misura. Aspetto che colui che sogna in questo avello appaia, flebile come ‘l fuoco d’una candela, e rinunci al proprio uffizio. Possa la pietra disciogliersi a causa del calore che emanerà ‘l sole – un futuro per il cosmo non troppo lontano. Se la vita è un imprevisto della materia, ove per caso nacque, per fato nacque la complessità in un picciol globo, per caso nacque la coscienza, ciò non toglie che come il corpo custodisce i pensieri che ‘l fato gli ha affidato, così tale cripta custodiva la malinconia per un amore mai provato; perduto nei ricordi che non sono altro che lapidi più immobili delle iscrizioni che pullulano a Père-Lachaise.
“Vedere un cimitero è indice d’un attaccamento al passato.” La mancanza d’un senso non traduce un non-senso; chi è cieco, l’oscurità non apprende. In questa funerea valle ogni tomba è un’immagine sbiadita dell’Eterno; ogni tomba custodisce come una giovine vergine il proprio candore, la leggiadria dell’acanto di fronte agli eccitati branchi di cinghiali e delle carogne che intorno divoran tutto – anche se stesse, soprattutto se stesse. I tordi scagliati nel cielo tramontano in un col sole, e la notte dona il cadavere di un colombo consumato da’ corvi: gli uccelli, come li uomini, non giurarono fratellanza. Come un vampiro, dinnanzi una soglia, aspetta l’invito, così, con la medesima solennità, salgo sul gradino che mi conduce più prossimo al regno dei morti; saluto i sentieri degli uomini co’ i loro sampietrini anonimi (lascio l’umanità appesa al delirio), ed entro nelle gemme della terra, negl’inferi bui; è questa un’altra via per la valle sanza alcun volo d’augello, ove dormono gli spirti che sorvegliano i metalli.
Una cripta è aperta. Il sepolto, che fu moralista, che per affetto scrisse quelle cose, trova la propria lapide qui: un ragazzo che seminava gioia. Gli angeli scolpiti osservano e par di vedere, dietro quel riso diabolico, un rancore; sepolto è qui un amore mai giunto alla compiutezza d’un bacio.
Non v’è nell’esistente nulla di più alto d’una promessa; tutto l’altro cadrà, come le piume dall’orgoglio dell’aquila; come dalle lapidi le scritte. La fedeltà non si misura. Aspetto che colui che sogna in questo avello appaia, flebile come ‘l fuoco d’una candela, e rinunci al proprio uffizio. Possa la pietra disciogliersi a causa del calore che emanerà ‘l sole – un futuro per il cosmo non troppo lontano. Se la vita è un imprevisto della materia, ove per caso nacque, per fato nacque la complessità in un picciol globo, per caso nacque la coscienza, ciò non toglie che come il corpo custodisce i pensieri che ‘l fato gli ha affidato, così tale cripta custodiva la malinconia per un amore mai provato; perduto nei ricordi che non sono altro che lapidi più immobili delle iscrizioni che pullulano a Père-Lachaise.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
lunedì 10 luglio 2017
Il vestito giallo - dal quarto canto del "Cortese Memorie di un Sogno" di Giancarlo Petrella
Ti bacio mentre delicatamente
premo sulla tua guancia
come se dovessi proteggerla
dalla gravità, dall’oblio.
Le tue pupille sigillate da tristezza
forse mi guardano mentre
ti avvicino alle mie labbra,
tale gioia è del colore del vestito
della sera che per prima
mi sfiorasti la mano.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
premo sulla tua guancia
come se dovessi proteggerla
dalla gravità, dall’oblio.
Le tue pupille sigillate da tristezza
forse mi guardano mentre
ti avvicino alle mie labbra,
tale gioia è del colore del vestito
della sera che per prima
mi sfiorasti la mano.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
giovedì 6 luglio 2017
La penna che cadde - dal quarto canto del "Cortese Memorie di un Sogno" di Giancarlo Petrella
Dall'oscura sotterra il fabbro ai demoni
si diletta col parlare, del ferro
sciamano, degli inferi araldo, al collo
tien gli spirti e i gravi diletti apprende.
Il sapere sul singolo è ignoranza,
l’universale è un perire, non altro,
sciocca la volontà di conoscenza,
memora: ciò che apprendiamo cadrà,
tutto dileguasi, rimane solo
tal sensazione certa di tristizia;
ché la coscienza non riceve l’essere,
ma il tramonto delle cose, rifletti;
fugge, fugge l’ora che ci persuase
che eravamo vivi; orrido l’abisso
spalanca le fauci dacché cadremo.
La gravità è presente sicché cadde
la penna regalatami; tal lieve
evento serberà l’idea del giorno
come il tappo scalfito il dolce viso.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
si diletta col parlare, del ferro
sciamano, degli inferi araldo, al collo
tien gli spirti e i gravi diletti apprende.
Il sapere sul singolo è ignoranza,
l’universale è un perire, non altro,
sciocca la volontà di conoscenza,
memora: ciò che apprendiamo cadrà,
tutto dileguasi, rimane solo
tal sensazione certa di tristizia;
ché la coscienza non riceve l’essere,
ma il tramonto delle cose, rifletti;
fugge, fugge l’ora che ci persuase
che eravamo vivi; orrido l’abisso
spalanca le fauci dacché cadremo.
La gravità è presente sicché cadde
la penna regalatami; tal lieve
evento serberà l’idea del giorno
come il tappo scalfito il dolce viso.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
venerdì 30 giugno 2017
Improvvisazione dopo aver visto un quadro di Strudwick - dal quinto canto dell'"Art Nouveau" di Giancarlo Petrella
Quali fuggevoli acque da una mano,
che vaso mal gradito si rivela,
fugge così il pensere e con ei ‘l tempo;
fugge come le dita fra i capelli
quando ti pettini: fluisce e par ritmo
sussurrato da un sospiro nascente
dalle viscere della terra buie.
Il Dimonio in un sogno apparve a Tàrtini,
sospirandogli suon' più bei del cielo,
dacché i folletti senton più degl’angeli
il verso, il ritmo. Le ricchezze date
terrene in dono il divino placarono,
per atto umile l'ignoto rendendo,
perciò sfiora l’arpa e l'altro tralascia!
Fiamme infernali avvolsero la misera
terra, dalla terra profonda emerse;
pianti laceravano gli infernali
Dei quando l’Etna sconsolava il mare:
uno strido; quel suono è poco al dolce
arpeggio donato dal tuo talento;
a noi il palpitar, il vano lamento.
Gli affanni sono maschere, illusioni,
se fossero un io attuale vi sarebbe
e non mutevole; nel palpitare
cerchiam rifugio, un essere non dato:
muta come musica; ma il desïo
si muove e nel suo talento rimane
unico, come colèi che si ama.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©
che vaso mal gradito si rivela,
fugge così il pensere e con ei ‘l tempo;
fugge come le dita fra i capelli
quando ti pettini: fluisce e par ritmo
sussurrato da un sospiro nascente
dalle viscere della terra buie.
Il Dimonio in un sogno apparve a Tàrtini,
sospirandogli suon' più bei del cielo,
dacché i folletti senton più degl’angeli
il verso, il ritmo. Le ricchezze date
terrene in dono il divino placarono,
per atto umile l'ignoto rendendo,
perciò sfiora l’arpa e l'altro tralascia!
Fiamme infernali avvolsero la misera
terra, dalla terra profonda emerse;
pianti laceravano gli infernali
Dei quando l’Etna sconsolava il mare:
uno strido; quel suono è poco al dolce
arpeggio donato dal tuo talento;
a noi il palpitar, il vano lamento.
Gli affanni sono maschere, illusioni,
se fossero un io attuale vi sarebbe
e non mutevole; nel palpitare
cerchiam rifugio, un essere non dato:
muta come musica; ma il desïo
si muove e nel suo talento rimane
unico, come colèi che si ama.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©
mercoledì 14 giugno 2017
Totila - dal quarto canto del "Cortese Memorie di un Sogno" di Giancarlo Petrella
Lo guardavano i padri dalla corte
dei morti Totila quando la lancia
muoveva, prima dello scontro a Gualdo,
per mostrare la propria abilità:
di più bello che v’è di questa gioia?
Gioia nel muovere il cavallo e l’arma
palleggiando, mostrandosi persuaso,
incitando non gli altri ma i suoi padri.
Fu inutilmente, tanto più gloriosa.
E chi ai morti si affida, braccia aperte
avrà come l’oceano che, avvolgendo
sé, non dimentica nessuno. Urlava
per terminare la gloria dei greci,
inutilmente, non vedrà nel giorno
l’elmo lo splendido volto. Più gloria
è data agli sconfitti che pietosi
ai padri s’affidavano, non l’oro,
non l’impero venerando ma i demoni,
che sotterranei reclamano vita.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
dei morti Totila quando la lancia
muoveva, prima dello scontro a Gualdo,
per mostrare la propria abilità:
di più bello che v’è di questa gioia?
Gioia nel muovere il cavallo e l’arma
palleggiando, mostrandosi persuaso,
incitando non gli altri ma i suoi padri.
Fu inutilmente, tanto più gloriosa.
E chi ai morti si affida, braccia aperte
avrà come l’oceano che, avvolgendo
sé, non dimentica nessuno. Urlava
per terminare la gloria dei greci,
inutilmente, non vedrà nel giorno
l’elmo lo splendido volto. Più gloria
è data agli sconfitti che pietosi
ai padri s’affidavano, non l’oro,
non l’impero venerando ma i demoni,
che sotterranei reclamano vita.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
mercoledì 31 maggio 2017
Illusione di un tramonto - analisi metrica di Mario Famularo
Per quanto riguarda l’analisi metrica del componimento Illusioni di un Tramonto di Giancarlo Petrella, partiamo dalla prima strofa:
1° 5° 10°
3° 7° 10°
1° 5° 10°
1° 4° 6° 10°
1° 4° 6° 10°
1° 3° 6° 8° 10°
3° 5° 10°
2° 4° 6° 8° 10°
L'endecasillabo canonico l’Autore lo mantiene su otto versi quattro volte; negli altri compie delle progressioni accentuative: nel penultimo verso si sposta prima l'accento dalla 6° sillaba alla 5° mantenendo fisso quello della 3° — poi nell'ultimo alterna dalle 3° e 5° alle 2°, 4° e 6° il che crea un interessante ritmo ondulatorio. Se si nota il passaggio dal terzo al quarto verso si constata l’alternarsi dell'accento di 5° a quelli di 4° e 6°, ciò crea una progressione che dà un ritmo ondulatorio, come quello dell'esametro latino, ma si può benissimo andare oltre, e considerarlo come una visione più moderna della metrica. Il discorso che l’Autore sostiene nella Prefazione riguardante i quaternari può essere così svolto: il verso 3° 7° 10° possiamo leggerlo come "a un violì 3° no || le virgì 3° ne || e dormie 3° nti" tre quaternari di fila, o se si preferisce, un trimetro di tre peoni terzi; se poniamo a leggerli con i piedi è tutto legittimo e inoltre, il fatto che l’Autore alterni endecasillabi canonici ad endecasillabi non canonici, crea modulazioni. Va precisato che non si tratta di un'operazione inconsapevole, come potrebbe essere stato per i duecenteschi e i trecenteschi (questa è la differenza essenziale da un punto di vista metrico con loro): l’Autore conosce il canone e se ne discosta consapevolmente e parzialmente.
Analizziamo gli accenti della seconda strofa:
1° 5° 8° 10°
4° 7° 10°
1° 5° 7° 10°
2° 4° 8° 10°
4° 7° 10°
3° 6° 10°
4° 7° 10°
5° 8° 10°
quanto detto è confermato; ovvero sono evidenti le alternanze accentuative, le progressioni (vedasi come si modulano le posizioni, ad esempio: 5-4-5-4-4-3-4-5, o 8-7-7-8-7-6-7-8).
Quindi non si può concepire il tutto come “operazione strampalata”, pericolo che l’Autore ha evocato, ma come un modo per impiegare l'endecasillabo canonico con particolare modulazioni del ritmo, come avviene per analogia nell'esametro latino.
Proprietà letteraria riservata©
3° 7° 10°
1° 5° 10°
1° 4° 6° 10°
1° 4° 6° 10°
1° 3° 6° 8° 10°
3° 5° 10°
2° 4° 6° 8° 10°
L'endecasillabo canonico l’Autore lo mantiene su otto versi quattro volte; negli altri compie delle progressioni accentuative: nel penultimo verso si sposta prima l'accento dalla 6° sillaba alla 5° mantenendo fisso quello della 3° — poi nell'ultimo alterna dalle 3° e 5° alle 2°, 4° e 6° il che crea un interessante ritmo ondulatorio. Se si nota il passaggio dal terzo al quarto verso si constata l’alternarsi dell'accento di 5° a quelli di 4° e 6°, ciò crea una progressione che dà un ritmo ondulatorio, come quello dell'esametro latino, ma si può benissimo andare oltre, e considerarlo come una visione più moderna della metrica. Il discorso che l’Autore sostiene nella Prefazione riguardante i quaternari può essere così svolto: il verso 3° 7° 10° possiamo leggerlo come "a un violì 3° no || le virgì 3° ne || e dormie 3° nti" tre quaternari di fila, o se si preferisce, un trimetro di tre peoni terzi; se poniamo a leggerli con i piedi è tutto legittimo e inoltre, il fatto che l’Autore alterni endecasillabi canonici ad endecasillabi non canonici, crea modulazioni. Va precisato che non si tratta di un'operazione inconsapevole, come potrebbe essere stato per i duecenteschi e i trecenteschi (questa è la differenza essenziale da un punto di vista metrico con loro): l’Autore conosce il canone e se ne discosta consapevolmente e parzialmente.
Analizziamo gli accenti della seconda strofa:
1° 5° 8° 10°
4° 7° 10°
1° 5° 7° 10°
2° 4° 8° 10°
4° 7° 10°
3° 6° 10°
4° 7° 10°
5° 8° 10°
quanto detto è confermato; ovvero sono evidenti le alternanze accentuative, le progressioni (vedasi come si modulano le posizioni, ad esempio: 5-4-5-4-4-3-4-5, o 8-7-7-8-7-6-7-8).
Quindi non si può concepire il tutto come “operazione strampalata”, pericolo che l’Autore ha evocato, ma come un modo per impiegare l'endecasillabo canonico con particolare modulazioni del ritmo, come avviene per analogia nell'esametro latino.
Proprietà letteraria riservata©
Prefazione dell'Autore all'Art Nouveau
Leggere un libro tanto per leggerlo, per trascorrere del tempo, se a ciò si riduce la vostra intenzione, ad altro dedicatevi. Non si legge per evadere dal reale, per consolazione, per distrazione, per curiosità, viepiù per un’esigenza di pulizia, d’ordine, di rispetto, di riconoscenza, d’affetto, d’invidia. Si legge per le medesime ragioni per le quali una volta si cercava di preservare qualcosa al di sopra della vita: l’onore.
Sentire la rima come qualcosa di imbarazzante, laddove si riveli elemento portante, e di errato, con l’esclusione di pochi versificatori, sentirla come superficiale, che svergogna il senso fonetico stesso del verso (rima che alletta l’orecchio imbelle dei più, che preferiscono «melodie canticchiabili», magari «fischiettabili», al severo contrappunto o ad armonie complesse) questa sensazione di perplessità di fronte la rima, significa l’esigenza di un verso nuovo; che fu antico, dacché antecedente a Dante. Ovvero: non monotonia e agile cantabilità, ma bellezza di canto.
Voler distanziarsi, sentirne la necessità (qui volontà e necessità coincidono) significa danzare fra due baratri: da un lato v’è l’immediatezza, che rimanda alla gravità, dall’altro l’artificiosità. I più sentenzieranno narcisismo; narcisismo il rifiutarsi di cedere all’immediatezza e che, a lor dire, denuncia la credenza d’essere diversi: siamo tutti uguali, grida l’uomo della strada, pronto a crearsi idoli al di sopra di lui, dacché ne ha pur bisogno.
Vano è far comprendere (comprensione intellettiva non v’è), ch’un sentimento aristocratico si autogiustifica. Presso gli antichi le idee, talune idee in particolar modo, si autogiustificavano; gli uomini erano degli opachi riflessi. «L'État, c'est Moi»: non sussiste necessità d’alcuna dottrina politica: a che servono i pensieri? le catene dei ragionamenti? l’eziologia e la gnoseologia? non basta il mio sentire? il mio vedere? l’immediatezza del mio essere per giustificare le mie speranze?
Ho sì posto delle note, ma non sono esplicative, neppur indicative; semplicemente vanno lette - per la maggior parte - come degli omaggi. Eliminare non tanto il superfluo, quanto non farsi sfiorare.
Ciò che è ho voluto offrire al diadema delle muse (the case presents adjunct to the Muses' diadem), col primo volume, di una prima parte di un Poema[1], è un nuovo modo di sentire il verso, in cui le questioni fonetiche sono più importanti degli schemi fissi degli accenti metrici: per il lettore curioso, il quinto canto spiega da sé le mie intenzioni. Per depotenziare l’endecasillabo canonico a maiore e a minore, ho preferito accenti sulla quinta e, qualora persino sulla terza, in tal caso ho posto dei quaternari: nella letteratura italiana appaiono di rado, li ho trovati semmai rapidi. Sono conscio che un’operazione del genere, per chiunque si sia mai confrontato con questioni metriche, sia inusitata, strana, “strampalata”; ma il mio gusto estetico, già giustificherebbe da sé la scelta, di poi v’è la certezza che prima delle forme espresse dal Petrarca, rimatori sparsi per l’Italia, hanno sentito l’esigenza primitiva di un suono, a voi, diverso.
Logicamente l’opera inizia con un’accordatura:
[1]Di un poema si tratta, non di singole poesie sparse.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©
Sentire la rima come qualcosa di imbarazzante, laddove si riveli elemento portante, e di errato, con l’esclusione di pochi versificatori, sentirla come superficiale, che svergogna il senso fonetico stesso del verso (rima che alletta l’orecchio imbelle dei più, che preferiscono «melodie canticchiabili», magari «fischiettabili», al severo contrappunto o ad armonie complesse) questa sensazione di perplessità di fronte la rima, significa l’esigenza di un verso nuovo; che fu antico, dacché antecedente a Dante. Ovvero: non monotonia e agile cantabilità, ma bellezza di canto.
Voler distanziarsi, sentirne la necessità (qui volontà e necessità coincidono) significa danzare fra due baratri: da un lato v’è l’immediatezza, che rimanda alla gravità, dall’altro l’artificiosità. I più sentenzieranno narcisismo; narcisismo il rifiutarsi di cedere all’immediatezza e che, a lor dire, denuncia la credenza d’essere diversi: siamo tutti uguali, grida l’uomo della strada, pronto a crearsi idoli al di sopra di lui, dacché ne ha pur bisogno.
Vano è far comprendere (comprensione intellettiva non v’è), ch’un sentimento aristocratico si autogiustifica. Presso gli antichi le idee, talune idee in particolar modo, si autogiustificavano; gli uomini erano degli opachi riflessi. «L'État, c'est Moi»: non sussiste necessità d’alcuna dottrina politica: a che servono i pensieri? le catene dei ragionamenti? l’eziologia e la gnoseologia? non basta il mio sentire? il mio vedere? l’immediatezza del mio essere per giustificare le mie speranze?
Ho sì posto delle note, ma non sono esplicative, neppur indicative; semplicemente vanno lette - per la maggior parte - come degli omaggi. Eliminare non tanto il superfluo, quanto non farsi sfiorare.
Ciò che è ho voluto offrire al diadema delle muse (the case presents adjunct to the Muses' diadem), col primo volume, di una prima parte di un Poema[1], è un nuovo modo di sentire il verso, in cui le questioni fonetiche sono più importanti degli schemi fissi degli accenti metrici: per il lettore curioso, il quinto canto spiega da sé le mie intenzioni. Per depotenziare l’endecasillabo canonico a maiore e a minore, ho preferito accenti sulla quinta e, qualora persino sulla terza, in tal caso ho posto dei quaternari: nella letteratura italiana appaiono di rado, li ho trovati semmai rapidi. Sono conscio che un’operazione del genere, per chiunque si sia mai confrontato con questioni metriche, sia inusitata, strana, “strampalata”; ma il mio gusto estetico, già giustificherebbe da sé la scelta, di poi v’è la certezza che prima delle forme espresse dal Petrarca, rimatori sparsi per l’Italia, hanno sentito l’esigenza primitiva di un suono, a voi, diverso.
Logicamente l’opera inizia con un’accordatura:
[1]Di un poema si tratta, non di singole poesie sparse.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Art Nouveau”
Proprietà letteraria riservata©
domenica 28 maggio 2017
Santo Stefano a Bologna - dal terzo canto del "Cortese Memorie di un Sogno" di Giancarlo Petrella
Era l’eternità e il Creatore mossesi;
l’universo in un punto vide e disse:
qui fia un tempio a Me eterno; così orando
nel sogno sussurrò a Liutprando, nulla
questi mutò. D’intorno fioca luce
come in un sogno e un silenzio pervade
che riconforta l’anima dal mondo.
Mi prendesti la mano e comprendemmo
la Gloria; e quando verrà delle rose
il tempo, non avere paura, guarda:
l’universo non ha in cura né noi,
né sé medesimo; non pianger ora
se questo Nulla ci accompagna e sfiora,
ché per quel poco che conta, ci amammo
come nessuno saprà far mai più.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
l’universo in un punto vide e disse:
qui fia un tempio a Me eterno; così orando
nel sogno sussurrò a Liutprando, nulla
questi mutò. D’intorno fioca luce
come in un sogno e un silenzio pervade
che riconforta l’anima dal mondo.
Mi prendesti la mano e comprendemmo
la Gloria; e quando verrà delle rose
il tempo, non avere paura, guarda:
l’universo non ha in cura né noi,
né sé medesimo; non pianger ora
se questo Nulla ci accompagna e sfiora,
ché per quel poco che conta, ci amammo
come nessuno saprà far mai più.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
martedì 23 maggio 2017
Improvviso - dal sesto canto del "Cortese Memorie di un Sogno" di Giancarlo Petrella
Con qual diritto si è felici? Ovunque
spaziano liberi dolore e morte.
Eppur il verde col rosa si mesce:
tanto odiato l’oblio di tregua un attimo
reca, degli enti tralasciando il termine.
Nessun colpevole d’essere al mondo,
pur infelicità rechiamo senza
saper d’essere.
Nel sogno apparve a Tartini un demonio
sospirando suon più bello del cielo,
dacché i folletti pur sentono il verso,
forse lo stesso demone vesevo;
fiamme infernali avvolsero la misera
terra che dal profondo ventre emersero;
urla, silenzi orrendi e polve ovunque.
Le ricchezze terrene date in dono
placarono il Divino, per l’atto umile,
il suono sigillando; terrore, estasi
così continua ad essere felice.
Quali fuggevoli acque da una mano,
che vaso mal gradito si rivela,
fugge così il pensere e con ei il tempo
e quel barlume che parve infinito.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
spaziano liberi dolore e morte.
Eppur il verde col rosa si mesce:
tanto odiato l’oblio di tregua un attimo
reca, degli enti tralasciando il termine.
Nessun colpevole d’essere al mondo,
pur infelicità rechiamo senza
saper d’essere.
Nel sogno apparve a Tartini un demonio
sospirando suon più bello del cielo,
dacché i folletti pur sentono il verso,
forse lo stesso demone vesevo;
fiamme infernali avvolsero la misera
terra che dal profondo ventre emersero;
urla, silenzi orrendi e polve ovunque.
Le ricchezze terrene date in dono
placarono il Divino, per l’atto umile,
il suono sigillando; terrore, estasi
così continua ad essere felice.
Quali fuggevoli acque da una mano,
che vaso mal gradito si rivela,
fugge così il pensere e con ei il tempo
e quel barlume che parve infinito.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
venerdì 14 aprile 2017
Testamento - dal secondo canto del "Cortese Memorie di un Sogno" di Giancarlo Petrella
Deh, ti prego, Illusione, torna a letto,
il sole non svelare;
al di là delle viole tende, taci
che non fu reale il sogno;
ché del reale noi non ne abbiam bisogno.
Venga quel grande che di amore e limpidi
costumi i canti adornava e la pace
bramava più del sole.
Le colpe e l’innocenza
ugualmente diffuse;
ognuno custodisce
quel barlume di tenebra
che i natali ci diedero.
Nessun colpevole d’essere al mondo;
quando non più gli istanti aduleranno
l’Essere, quando il Nulla avrà ripreso
l’antichissimo scanno,
tutti i versi del mondo non daranno
un senso alcuno al Tutto; ci desidera
la morte, bramaci più della vita.
Per questo il Poeta, ai sogni dando ascolto,
cantò che, in questa valle di non sensi,
soltanto sogni esistono:
quando all’oscurità del sole torno,
allora la tristezza mi pervade
bramando un sogno senza alcuna fine.
Cos’è questo dolore immenso? Grave
peso che schianta più di un tradimento;
è la corte dei morti
che ci chiama: alla forza
di gravità pur non sfugge la luce
e il tempo se in un buco nero siede,
perciò temere non devi, tralascia
le sciocchezze dell’oggi, de la vita
quotidiana che strazia
più di una infranta fede
non devi interessarti,
ognuno è per la sua fantasia Febo:
creatore. Cos’è il reale
se non un’idea? Volgiti:
guarda negli occhi, trovi tu il mio sguardo
simile a cose? Il reale proprio in quanto
reale non è il vero. Gli occhi non sono
semplici oggetti. Apollo
vaga nella foresta e pace agogna
per l’esser solo; e nella notte estinguesi.
Cos’è questo dolore immenso? Il nulla
che chiama in ogni via come un rancore
e si riflette; non guardarti mai
quando senti dei cani l’ululare
nello specchio, quel pozzo
potrebbe imprigionarti,
quel barlume di notte che trattieni
nei soffi. La coscienza è l’osservare
solo i nostri tormenti,
in ciò siede la sua maledizione,
e anticipa la morte.
Nessun colpevole d’essere al mondo,
ma nel venire al mondo
rechiamo infelicità e per lei siamo;
anche l’indifferenza è sol tristizia.
Quando non più gli istanti aduleranno
l’Essere, quando il Nulla avrà ripreso
l’antichissimo scanno, la coscienza
non sarà più, e giaceremo nel vento.
Che ovunque noi non siamo
nessun piange, sicché perché se al tempo
per poco nati siamo disperati?
Pur se mai spazio e tempo giaceranno
insieme come i nostri soffi giovani,
torna al letto Illusione,
che ‘l sole sventra la volta celeste
e i raggi si fan strada.
Dell’amore si deve
veder l’egöismo che quel che si ama
lo si estolle sopra ogni tutto, l’altro
perde il proprio piumaggio.
Ricordati le volte che il capello
lungo ti cade dal dolce tuo petto
sulla gamba e lo levo
così sfiorandoti; un bacio è il mio premio.
Torniamo al nostro letto,
la realtà lasciala a chi crede in essa,
la nostra fede siano sol gli sguardi
poiché ponendo il mio sguardo nel tuo
ritorna a me più puro.
Le nostre tombe, polvere su infrante
promesse, giaceranno accanto; intorno
petali e primavera;
si impiegherebbe men tempo a conoscere
li uomini che ogni singolo
fior. Verrà de le rose il tempo, memora.
Esperire la morte
è impossibile al corpo:
perpetuarsi è il valore;
pur percepisce l’idea de la morte.
Anticipiamo nel pensar la fine,
perché la corte dei morti ci chiama
come un vizio continuo;
d’intorno fioca luce
come in un sogno e un silenzio pervade
che riconforta l’anima dal mondo.
Torna al letto: la morte già ci vinse
quando il sole tornò.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
il sole non svelare;
al di là delle viole tende, taci
che non fu reale il sogno;
ché del reale noi non ne abbiam bisogno.
Venga quel grande che di amore e limpidi
costumi i canti adornava e la pace
bramava più del sole.
Le colpe e l’innocenza
ugualmente diffuse;
ognuno custodisce
quel barlume di tenebra
che i natali ci diedero.
Nessun colpevole d’essere al mondo;
quando non più gli istanti aduleranno
l’Essere, quando il Nulla avrà ripreso
l’antichissimo scanno,
tutti i versi del mondo non daranno
un senso alcuno al Tutto; ci desidera
la morte, bramaci più della vita.
Per questo il Poeta, ai sogni dando ascolto,
cantò che, in questa valle di non sensi,
soltanto sogni esistono:
quando all’oscurità del sole torno,
allora la tristezza mi pervade
bramando un sogno senza alcuna fine.
Cos’è questo dolore immenso? Grave
peso che schianta più di un tradimento;
è la corte dei morti
che ci chiama: alla forza
di gravità pur non sfugge la luce
e il tempo se in un buco nero siede,
perciò temere non devi, tralascia
le sciocchezze dell’oggi, de la vita
quotidiana che strazia
più di una infranta fede
non devi interessarti,
ognuno è per la sua fantasia Febo:
creatore. Cos’è il reale
se non un’idea? Volgiti:
guarda negli occhi, trovi tu il mio sguardo
simile a cose? Il reale proprio in quanto
reale non è il vero. Gli occhi non sono
semplici oggetti. Apollo
vaga nella foresta e pace agogna
per l’esser solo; e nella notte estinguesi.
Cos’è questo dolore immenso? Il nulla
che chiama in ogni via come un rancore
e si riflette; non guardarti mai
quando senti dei cani l’ululare
nello specchio, quel pozzo
potrebbe imprigionarti,
quel barlume di notte che trattieni
nei soffi. La coscienza è l’osservare
solo i nostri tormenti,
in ciò siede la sua maledizione,
e anticipa la morte.
Nessun colpevole d’essere al mondo,
ma nel venire al mondo
rechiamo infelicità e per lei siamo;
anche l’indifferenza è sol tristizia.
Quando non più gli istanti aduleranno
l’Essere, quando il Nulla avrà ripreso
l’antichissimo scanno, la coscienza
non sarà più, e giaceremo nel vento.
Che ovunque noi non siamo
nessun piange, sicché perché se al tempo
per poco nati siamo disperati?
Pur se mai spazio e tempo giaceranno
insieme come i nostri soffi giovani,
torna al letto Illusione,
che ‘l sole sventra la volta celeste
e i raggi si fan strada.
Dell’amore si deve
veder l’egöismo che quel che si ama
lo si estolle sopra ogni tutto, l’altro
perde il proprio piumaggio.
Ricordati le volte che il capello
lungo ti cade dal dolce tuo petto
sulla gamba e lo levo
così sfiorandoti; un bacio è il mio premio.
Torniamo al nostro letto,
la realtà lasciala a chi crede in essa,
la nostra fede siano sol gli sguardi
poiché ponendo il mio sguardo nel tuo
ritorna a me più puro.
Le nostre tombe, polvere su infrante
promesse, giaceranno accanto; intorno
petali e primavera;
si impiegherebbe men tempo a conoscere
li uomini che ogni singolo
fior. Verrà de le rose il tempo, memora.
Esperire la morte
è impossibile al corpo:
perpetuarsi è il valore;
pur percepisce l’idea de la morte.
Anticipiamo nel pensar la fine,
perché la corte dei morti ci chiama
come un vizio continuo;
d’intorno fioca luce
come in un sogno e un silenzio pervade
che riconforta l’anima dal mondo.
Torna al letto: la morte già ci vinse
quando il sole tornò.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
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Addio - dal sesto canto del "Cortese Memorie di un Sogno" di Giancarlo Petrella
Egoismo è l’amore che quel che si ama
sovra il tutto lo si estolle; ti vidi
e pensai come fossi un mondo, dama
dei sogni… ciò ancora è perché tu ridi.
Questo corvo, che è il tempo, a te di fronte
siede su un ramo e lo accarezzi, pronte
le ali e le mani e i vostri cuori avvezzi;
non più a me riderai: tu mi disprezzi.
Non v’è dolore senza un io; il vampiro
passeggiava, lo insultava la neve,
si percepiva escluso ed uno spiro
gli ricordò la morte e il corpo lieve.
Disceso l’uom più non comprese Dio,
scese così il vampiro nelle oscure
tenebre: il suo cuor gelido e quel io
che un tempo amò, ora gli reca torture.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
Proprietà letteraria riservata©
sovra il tutto lo si estolle; ti vidi
e pensai come fossi un mondo, dama
dei sogni… ciò ancora è perché tu ridi.
Questo corvo, che è il tempo, a te di fronte
siede su un ramo e lo accarezzi, pronte
le ali e le mani e i vostri cuori avvezzi;
non più a me riderai: tu mi disprezzi.
Non v’è dolore senza un io; il vampiro
passeggiava, lo insultava la neve,
si percepiva escluso ed uno spiro
gli ricordò la morte e il corpo lieve.
Disceso l’uom più non comprese Dio,
scese così il vampiro nelle oscure
tenebre: il suo cuor gelido e quel io
che un tempo amò, ora gli reca torture.
di Giancarlo Petrella,
tratto da "La Morte del Tempo - Cortese Memorie di un Sogno"
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